Natura umana, natura di Buddha
Un’intervista con John Welwood
di Tina Fossella (da Tricycle Buddhist Review, Spring 2011)
Primavera 2011
Negli anni 80, John Welwood si è affermato come un pioniere nel chiarire la relazione tra psicoterapia occidentale e pratiche buddhiste. L’ex direttore del programma di psicologia oriente/occidente presso il California Institute of Integral Studies a San Francisco, è attualmente editore associato della rivista di Transpersonal Psychology.
Welwood ha pubblicato numerosi articoli e libri sui temi della relazione, della psicoterapia, della coscienza e dell’evoluzione personale, incluso il bestseller Journey of the Heart (Harper Collins). La sua idea di spiritual bypass è diventato un concetto chiave per riconoscere le insidie di una pratica spirituale a lungo termine.
La psicoterapeuta americana Tina Fossella ha parlato con Welwood su come il concetto si è sviluppato da quando lo ha introdotto trent’anni fa.
Lei ha introdotto il termine “spiritual bypassing” trent’anni fa. Per coloro che non hanno famigliarità con il concetto, potrebbe spiegare di cosa si tratta?
“Spiritual bypassing” è un termine che ho coniato per descrivere un processo che ho visto accadere nelle comunità buddhiste che ho frequentato, e anche in me stesso. Sebbene la maggior parte di noi stesse sinceramente provando a lavorare su sé stesso, ho notato una diffusa tendenza ad utilizzare le idee e le pratiche spirituali per schivare o evitare di fronteggiare (bypass) problemi emozionali irrisolti, ferite psicologiche, e processi di sviluppo incompiuti. Quando attiviamo il spiritual bypass, spesso usiamo l’obiettivo dell’illuminazione o della liberazione per cercare di elevarci al di sopra del lato crudo e disordinato della nostra umanità, senza averlo pienamente fronteggiato e prima di aver fatto pace con esso. Possiamo anche usare la nostra nozione di verità assoluta per screditare o respingere i bisogni umani relativi, i sentimenti, i problemi psicologici, le difficoltà relazionali e i deficit di sviluppo. Vedo questo come un rischio fondamentale del percorso spirituale, in quanto la spiritualità implica una visione di superamento [e non di evitamento] della nostra attuale situazione karmica.
Quale tipo di pericolo presenta questo?
Cercare di andare al di là dei nostri problemi psicologici ed emotivi eludendoli è pericoloso. Crea una grave spaccatura dentro di noi tra il buddha e l’umano. E conduce ad un tipo di spiritualità concettuale e unilaterale in cui un polo della vita è elevato alle spese del suo opposto: la verità assoluta è favorita rispetto alla verità relativa, l’impersonale rispetto al personale, la vacuità rispetto alla forma, la trascendenza rispetto all’incarnazione, e il distacco rispetto al sentimento. Uno potrebbe, ad esempio, cercare di praticare il non-attaccamento respingendo il proprio bisogno di amore, ma questo conduce solamente il bisogno ad un livello sotterraneo, dove è probabile che venga agito in segreto, inconsciamente, e in modo forse dannoso.
In questo periodo cosa le interessa maggiormente dello spiritual bypass?
Sono interessato al modo in cui gioca nelle relazioni. Lì lo spiritual bypass spesso scatena il suo peggior caos. Se tu fossi uno yogi in una caverna occupato in anni di ritiro solitario, le tue ferite psicologiche non si mostrerebbero più di tanto, in quanto il tuo focus sarebbe interamente sulla tua pratica. Ma nelle relazioni i nostri problemi psicologici irrisolti si mostrano più intensamente. Questo accade perchè le ferite psicologiche sono sempre relazionali – esse si formano nelle e attraverso le nostre relazioni con i nostri primi caregivers.
La ferita psicologica fondamentale, così prevalente nel mondo moderno, si forma dal non sentirsi amati o intrinsecamente amabili per come siamo. Un amore o sintonizzazione inadeguati sono scioccanti e traumatici per il sistema nervoso in fase di sviluppo e altamente sensibile di un bambino. Questo danneggia la nostra capacità di valutarci, che è anche la base per valutare gli altri. Io chiamo questo la “ferita relazionale” o “ferita del cuore”.
C’è un’intera branca di studi e ricerche nella psicologia occidentale che mostra quanto il legame stretto e la sintonizzazione amorevole – che è conosciuta come “attaccamento sicuro” – abbiano un potente impatto in ogni aspetto dello sviluppo umano. L’attaccamento sicuro ha un enorme effetto su molte dimensioni della nostra salute, benessere, e capacità di funzionare efficacemente nel mondo: come si forma il nostro cervello, quanto bene funzionano i nostri sistemi endocrino ed immunitario, come gestiamo le emozioni, quanto siamo soggetti alla depressione, come funziona il nostro sistema nervoso e come gestisce lo stress, e come ci relazioniamo con gli altri.
La cultura moderna e l’educazione dei figli lasciano molte persone sofferenti per i sintomi di un attaccamento insicuro: sintomi che possono essere odio per sé stessi, distacco dal corpo, mancanza di radicamento, insicurezza continua ed ansia, mente iperattiva, incapacità di fiducia profonda, ed un profondo senso di mancanza interiore. Così molti di noi soffrono di un grado estremo di alienazione e disconnessione che era sconosciuto nei tempi passati – disconnessione dalla società, dalla comunità, dalla famiglia, dalle generazioni più vecchie, dalla natura, dalla religione, dalla tradizione, dal nostro corpo, dal nostro sentire, e dalla nostra stessa umanità.
In che modo questo è rilevante per il modo in cui pratichiamo il dharma?
Molti di noi inizialmente si rivolgono al dharma almeno in parte come un modo per superare il dolore delle nostre ferite psicologiche e relazionali. Eppure siamo spesso nella negazione o inconsapevoli della natura o dell’estensione di queste ferite. Come risultato, essere un “buon” praticante spirituale può diventare un’identità compensatoria che ricopre e ci difende da una sottostante identità carente, in cui ci sentiamo male rispetto a noi stessi, non abbastanza buoni, o fondamentalmente mancanti. Quindi, sebbene noi possiamo praticare diligentemente, la nostra pratica spirituale può essere usata al servizio della negazione e della difesa. E quando una pratica spirituale è utilizzata per evitare e bypassare i nostri problemi umani, è una pratica che resta relegata in una zona separata della nostra vita reale, non integrata con il nostro funzionamento generale.
Potrebbe darci qualche ulteriore esempio di come lo spiritual bypass prende forma nei praticanti occidentali?
Nella mia pratica psicoterapica, spesso lavoro con studenti di dharma che hanno praticato per decenni. Spesso essi hanno sviluppato forme di gentilezza e compassione per gli altri ma sono duri con sé stessi per non essere all’altezza dei loro ideali spirituali, e la loro pratica spirituale è diventata arida e pomposa. Oppure essere di beneficio agli altri è diventato un dovere, o un modo per cercare di stare bene con sé stessi. Altri possono inconsciamente usare il loro splendore spirituale per nutrire il loro rigonfiamento narcisistico e per trattare gli altri in modo manipolatorio.
Persone con tendenze depressive che sono cresciute con una carenza di sintonizzazione amorevole nell’infanzia hanno difficoltà a valutare sé stessi, e possono usare gli insegnamenti sul non-sé per rinforzare la loro svalutazione. Non solo si sentono male con sé stessi ma neppure hanno la sicurezza di capire quando si sentono bene, e questa insicurezza la vivono come un ulteriore fallimento. Questa è una forma di io-fissazione, la fissazione in un io svalutato, che non ha nulla a che fare con il non-sé, anzi è l’antitesi del dharma. Può solo alimentare ulteriormente la loro vergogna o senso di colpa.
La meditazione è anche utilizzata comunemente per evitare sensazioni spiacevoli e situazioni di vita irrisolte. Ci sono persone tra noi, sul sentiero spirituale, che negano i propri sentimenti personali o le proprie ferite e che hanno difficoltà ad esprimersi in modo diretto e trasparente: per queste persone la pratica della meditazione può rinforzare la tendenza verso il disimpegno verso sé stessi e la disconnessione verso gli altri. Ma questo comportamento [distaccato], nel momento in cui devono affrontare la loro ferita, o dipendenza emotiva, o il bisogno primordiale di amore, può renderli eventi ancora più minacciosi.
Ho visto spesso come i tentativi di essere non-attaccato sono utilizzati per isolare le persone dalle loro vulnerabilità umane ed emozionali. E’ doloroso vedere qualcuno mantenere una posizione di distacco quando in profondità è affamato di esperienze positive di legame e connessione.
Quindi come riconciliamo l’ideale di non attaccamento con il bisogno di attaccamento umano? Buona domanda. Abbiamo bisogno di una prospettiva più ampia che possa riconoscere ed includere due differenti aspetti dello sviluppo umano: possiamo chiamarli crescita umana e risveglio; oppure guarigione e illuminazione; o ancora diventare una genuina persona umana e andare oltre la persona. Non siamo solo degli umani che stanno imparando a diventare Buddha, ma anche dei Buddha risvegliati nella forma umana, che stanno imparando come diventare pienamente umani. Queste due tracce di sviluppo possono arricchirsi l’un l’altra mutualmente.
Se noi ospitiamo una prospettiva che include entrambe queste tracce di sviluppo, allora non useremo le nostre nozioni di verità assoluta per sminuire la verità relativa, i sentimenti personali e il bisogno di connessione. Anche se i sentimenti personali e i bisogni possono non avere una realtà solida o ultima, metterli da parte rischia di causare gravi problemi psicologici.
Il maggior paradosso di essere sia umani sia Buddha, è che siamo sia dipendenti che non dipendenti. Una parte di noi è completamente dipendente dalle persone per tutto: per il cibo, i vestiti, l’amore, la connessione, l’ispirazione e l’aiuto nel nostro sviluppo. Anche se la nostra natura di Buddha è non dipendente – questa è la verità assoluta – la nostra incarnazione umana lo è – e questa è la verità relativa.
Quindi possiamo essere sia attaccati che non attaccati?
Sì. Il non attaccamento è un insegnamento sulla nostra natura ultima. Ma per crescere in un essere umano sano, noi abbiamo bisogno di una base di attaccamento sicuro nel senso positivo, psicologico, che significa stretti legami affettivi con altre persone che promuovono connessione, incarnazione radicata, e benessere. Come il naturalista John Muir ha scritto: “Quando proviamo a individuare e definire un oggetto in sé stesso, isolato, scopriamo che è legato saldamente da mille corde invisibili, che non possono essere rotte, con ogni cosa nell’universo”. Allo stesso modo, la mano non può funzionare a meno che non sia attaccata al braccio – questo è attaccamento in senso positivo. Siamo interconnessi, intrecciati e interdipendenti con ogni cosa nell’universo. A livello umano non possiamo fare a meno di sentirci un po’ attaccati alle persone a cui siamo vicini.
Perciò è naturale addolorarsi profondamente quando perdiamo qualcuno a cui siamo vicini. Ho sentito che quando Chögyam Trungpa Rinpoche ha partecipato al servizio in memoria del suo caro amico e collega Shunryu Suzuki, emise un grido penetrante e pianse apertamente. Stava riconoscendo i suoi stretti legami con Suzuki Roshi, ed era bello che lui potesse mostrare il suo sentire in questo modo.
Fintanto che non possiamo evitare un qualche tipo di attaccamento agli altri, la domanda è, “Siamo coinvolti in un attaccamento salutare o in uno non salutare?”. Ciò che non è salutare in termini psicologici è l’attaccamento detto “insicuro”, perché porta o alla paura di uno stretto contatto personale o all’ossessione per averlo. E’ interessante notare che le persone che crescono con un attaccamento salutare e “sicuro” sono più fiduciose, il che le rende molto meno propense ad aggrapparsi agli altri. Potremmo chiamare questo “attaccamento non attaccato”.
Sfortunatamente, possiamo facilmente confondere il non attaccamento con il rifiuto dell’attaccamento. Non è libertà dall’attaccamento, ma un’altra forma di aggrappamento: ci aggrappiamo al rifiuto dei nostri bisogni umani di attaccamento, perché non crediamo che l’amore sia affidabile e ci diciamo che non ne abbiamo bisogno.
Quindi il rifiuto dei bisogni di attaccamento è un’altra forma di attaccamento.
Sì. Nel campo della psicologia dello sviluppo nota come teoria dell’attaccamento, una forma di attaccamento insicuro è chiamata “attaccamento evitante”. Lo stile di attaccamento evitante si sviluppa nei bambini i cui genitori sono pressochè sempre non disponibili dal punto di vista emotivo. Questi bambini imparano a prendersi cura di sé stessi e a non avere bisogno di niente dagli altri. Questa è la loro strategia di adattamento, ed è intelligente e utile: se i tuoi bisogni emotivi non saranno soddisfatti è troppo doloroso continuare a sentirli, ed è ovvio che per te è meglio allontanarsi da loro e sviluppare una identità compensatoria “fai-da-te” e distaccata.
Cosa succede in un sangha (comunità di praticanti di meditazione) se molti dei membri hanno uno stile di attaccamento evitante nelle relazioni?
I tipi evitanti tendono ad essere sprezzanti con i bisogni delle altre persone perché sono sprezzanti nei confronti dei loro stessi bisogni.
Questo potrebbe spiegare alcuni dei problemi relazionali nei nostri sangha?
Assolutamente. Questo essere sprezzanti fa sì che le persone si sentano giustificate nel non rispettare i sentimenti e i bisogni degli altri. Non sorprende che spesso, “bisogno” diventa una parolaccia nelle comunità spirituali.
Le persone non si sentono libere di esprimere ciò che vogliono.
Esatto. Non dici ciò che vuoi perché non vuoi essere visto come bisognoso. Stai cercando di essere non attaccato. Ma questo è come un frutto acerbo che cerca di staccarsi dal ramo invece che ricevere ciò di cui ha bisogno – e che lo condurrebbe a maturare naturalmente e lasciarsi andare. Quando la nostra pratica spirituale è molto più avanti del nostro sviluppo umano, noi non maturiamo pienamente. La nostra pratica può essere maturata, ma non la nostra vita. E arriva un momento in cui quel divario diventa molto doloroso.
Quindi sta dicendo che lo spiritual bypass non solo corrompe la nostra pratica di dharma, esso anche blocca la nostra maturazione in individui completi ed integrati.
Sì. Un modo per bloccare lo sviluppo è trasformare gli insegnamenti spirituali in prescrizioni su ciò che dovresti fare, cosa dovresti pensare, come dovresti parlare, cosa dovresti sentire. Quindi la nostra pratica spirituale viene presa in consegna da una sorta di superego spirituale – la voce che sussurra “dovresti” nel tuo orecchio. Questo è un grosso ostacolo alla maturazione, perché nutre il nostro senso di mancanza.
Un maestro indiano, Swami Prajnanpad, il cui lavoro io ammiro, dice che “l’idealismo è un atto di violenza”. Cercare di vivere secondo un ideale invece di essere autenticamente dove sei, può diventare una forma di violenza interiore che ti divide in due, e mette una parte contro l’altra. Quando usiamo la pratica spirituale per “essere buoni” e per scongiurare un senso di mancanza o indegnità, allora essa si trasforma in una sorta di crociata.
Quali sono le conseguenze di rifiutare ciò che senti?
Dalla mia prospettiva di psicologo esistenziale, il sentire è una forma di intelligenza. E’ il modo incarnato, olistico, intuitivo di conoscere e rispondere, ed è altamente sintonizzato ed intelligente. A differenza dell’emotività, che è una reattività che ti travolge, il sentire ti aiuta ad andare dentro e a connetterti con ciò che sei. Sfortunatamente, il Buddismo tradizionale non fa una chiara distinzione tra sentire ed emozioni, quindi essi spesso sono compattati insieme e intesi come qualcosa di egoico da superare.
Quali tipi di strumenti o metodi ha trovato efficaci per lavorare con sentimenti difficili e problemi relazionali?
Ho sviluppato un processo chiamato “presenza incondizionata”, che implica contattare, permettere, aprirsi e persino arrendersi a qualunque cosa stiamo esperendo. Durante questo processo aiuto le persone ad approfondire la loro esperienza vissuta e lascio che si riveli gradualmente e si sveli, passo dopo passo. Lo chiamo “tracciare e spacchettare”: tracciare il processo dell’esperienza presente, seguendolo da vicino e guardando dove porta. E spacchettare, ovvero individuare le credenze, le identità, e i sentimenti che sono subconsci o impliciti in ciò che stai esperendo. Quando portiamo consapevolezza nella nostra esperienza in questo modo, è come districare un gomitolo di lana aggrovigliato: diversi nodi vengono gradualmente rivelati e districati uno per uno.
Come risultato, troviamo che siamo capaci di restare presenti nei luoghi in cui siamo stati assenti o disconnessi della nostra esperienza. Raggiungiamo parti di noi stessi che hanno bisogno di aiuto, e sviluppiamo un tipo di sintonizzazione interiore intima e radicata con noi stessi, che può aiutarci a relazionarci più facilmente anche con gli altri là dove anche loro sono bloccati.
Ho scoperto che quando le persone si impegnano sia nella pratica psicologica sia in quella meditativa, le due possono completarsi a vicenda in modi sinergici e reciprocamente vantaggiosi. Insieme generano un viaggio che include sia la guarigione che il risveglio. A volte un modo di lavorare è più appropriato per affrontare una determinata situazione nella nostra vita, a volte lo è l’altro.
In che modo la compassione influisce su questo approccio?
La parola compassione letteralmente significa “sentire con”. Non puoi avere compassione se prima non sei disposto a sentire ciò che senti. Aprirti a ciò che senti fa nascere una sensibilità e una tenerezza – quelle che Trungpa Rinpoche chiamava il “punto morbido”, che è il seme di bodhicitta [gentilezza del cuore].
E’ vulnerabilità.
Sì. Ed è il segno che ti stai avvicinando a bodhicitta. Questa sensibilità di pelle ci rende anche un po’ umili, perché scopriamo che, anche se facciamo pratica spirituale per decenni, ancora emergono questi sentimenti potenti, grossolani, caotici – come un serbatoio profondo di dolore o impotenza. Ma se possiamo riconoscerli e aprirci ad essi senza difenderci, ci stiamo muovendo verso una dimensione più grande, e lo stiamo facendo in un modo che è radicato nella nostra umanità. Noi maturiamo e diventiamo persone genuine imparando a fare spazio all’intera gamma di esperienze che attraversiamo.
Come sai che stai “facendo spazio” e non piuttosto indulgendo o sguazzando nei sentimenti?
Questa domanda sorge sempre. Crogiolarsi nei sentimenti è rimanere bloccati nella fissazione alimentata dal rimuginare sempre le stesse storie nella propria mente. La presenza incondizionata, invece ha a che fare con l’aprirsi in modo nudo, indifeso, ad un sentimento piuttosto che lasciarsi coinvolgere da storie sul sentimento. Per esempio, se il sentimento è la tristezza, crogiolarsi potrebbe comportare fissarsi su una storia del genere “povero me”. Invece fare spazio alla tristezza e darle la nostra presenza incondizionata significa relazionarsi direttamente con la tristezza di questo stesso momento, in sé stessa. In effetti è vero che scavare nei sentimenti può sembrare indulgenza verso di sè, ma direi che la volontà di incontrare direttamente la tua esperienza senza difese è una forma di coraggio. Trungpa Rinpoche ha insegnato che l’impavidità è la volontà di incontrare e sentire la propria paura. Possiamo espandere questa affermazione dicendo che l’impavidità è la volontà di incontrare, affrontare, includere, fare spazio, accogliere, consentire, aprirsi e persino arrendersi a qualsiasi cosa stiamo vivendo. Ad esempio, è un vero atto di coraggio sentire, riconoscere e aprirsi al proprio bisogno di un sano attaccamento e di una sana connessione, soprattutto se sei ferito sul piano relazionale. Se invece su quel bisogno ti fissi [te lo racconti] e te ne fai governare, ti stai solo crogiolando.
Cosa potrebbe aiutare le nostre comunità di sangha a sviluppare una migliore comunicazione e una maggiore trasparenza emotiva?
Abbiamo bisogno di lavorare sulle relazioni, Vedo le relazioni come l’avanguardia dell’evoluzione umana in questo momento. E’ l’ambito in cui è più difficile rimanere coscienti e svegli.
Potremmo cominciare riconoscendo il fatto che le comunità spirituali sono soggette alle stesse inconsce dinamiche di qualsiasi gruppo. Le persone nei gruppi inevitabilmente riaccendono l’un l’altro le ferite relazionali e fanno scattare reazioni. E’ importante vedere che tutto ciò a cui reagiamo negli altri è uno specchio di qualcosa che non riconosciamo in noi stessi; riconoscere chiaramente questo potrebbe aiutarci a lavorare più abilmente con i problemi di comunicazione nel sangha.
Quindi le persone devono fare un lavoro personale su di sè?
Sì, un lavoro su di sé congiunto con la loro pratica spirituale. Forse abbiamo bisogno di sviluppare alcuni modi semplici nelle comunità di dharma occidentali per aiutare le persone a lavorare con il proprio materiale psicologico.
Abbiamo anche bisogno di imparare come parlarci gli uni gli altri in modo personale ed onesto, a partire dall’esperienza presente, invece di ripetere gli insegnamenti su ciò che pensiamo che dovremmo esperire. E ci dev’essere quello che Thich Nhat Hanh chiama “ascolto profondo”, basato sull’imparare ad ascoltare la nostra esperienza. L’ascolto sintonizzato è un’attività sacra – una forma di arrendersi, ricevere, lasciar entrare.
Thich Nhat Hahn dice che amare è ascoltare.
Sì. Abbiamo anche bisogno di sviluppare una formidabile tolleranza e apprezzamento per i diversi stili personali di incarnare il dharma. Altrimenti, se ci accontentiamo di un dharma uguale per tutti, siamo condannati alla competizione infinita tra praticanti, basata sull’idea “io sono più santo di te” e alla superiorità di uno sugli altri. Tutti noi veneriamo il dharma, ma tutti abbiamo modi differenti di incarnarlo ed esprimerlo nelle nostre vite. Quindi vive la différence, è una bella cosa. Onorando pienamente le differenze individuali possiamo percorrere la lunga strada di ridurre i conflitti interni del sangha.
Un’ultima domanda a proposito dell’attaccamento nelle relazioni: sta affermando che per essere veramente non attaccati, uno debba essere prima attaccato?
In termini di evoluzione umana, il non attaccamento è un insegnamento avanzato. Sto solo suggerendo che abbiamo bisogno di essere capaci di formare attaccamenti umani soddisfacenti prima che sia possibile un autentico non attaccamento. Altrimenti, è probabile che qualcuno che soffre di attaccamento “insicuro” confonda il non attaccamento con il comportamento di attaccamento evitante [il rifiuto dell’attaccamento]. Per i tipi evitanti, l’attaccamento è in realtà minaccioso e spaventoso. Quindi la guarigione per i tipi evitanti implicherebbe il diventare disposti e in grado di sentire i propri bisogni di connessione umana, invece di aggirarli spiritualmente. Una volta che ciò accade, il non attaccamento comincia ad avere un senso.
Il compianto maestro Dzogchen Chagdud Tulku fece una potente dichiarazione sulla relazione tra attaccamento e non attaccamento. Egli disse “Le persone spesso mi chiedono: i lama hanno degli attaccamenti? Non so come altri lama potrebbero rispondere a questo, ma io devo dire di sì. Riconosco che i miei studenti, la mia famiglia, il mio paese non hanno realtà intrinseca… Eppure rimango profondamente legato a loro. Riconosco che il mio attaccamento non ha realtà intrinseca. Eppure non posso negare l’esperienza di esso”. E terminava dicendo “Tuttavia, conoscendo la natura vuota dell’attaccamento, so che la mia motivazione a beneficiare gli esseri senzienti deve sostituirla”.
Trovo che questa sia una bella articolazione dell’attaccamento non attaccato. Includere la natura umana accanto alla natura di buddha in questo modo, situandole entrambe nel più ampio contesto possibile, è tremendamente potente.
Tina Fossella è una psicoterapeuta contemplativa a San Francisco. E’ studentessa di Dzogchen Ponlop Rinpoche dal 1999 e fa parte del Comitato Esecutivo Nazionale della sua organizzazione, Nalandabodhi.
Link all’articolo originale: https://tricycle.org/magazine/human-nature-buddha-nature/