Incontro con la Pietà Bandini di Michelangelo

pieta bandiniAccade talvolta che un’opera d’arte provochi profonde risonanze interiori e che si rimanga a lungo a contemplarla in preda a forti emozioni.

A me è successo con la “Pietà Bandini”conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e attualmente sottoposta a restauro.

La composta armonia che caratterizza la “Pietà” di San Pietro, scolpita in età giovanile (1498- 1499), non si ritrova in questo maestoso gruppo marmoreo di struttura piramidale in cui il corpo del Cristo morto, visto frontalmente e in posizione centrale, mostra i segni di un duplice oltraggio perché martoriato dal supplizio della croce e perché pesantemente mutilato dalle violenti martellate sferrate dallo stesso artista che lo aveva creato.

Scomposto, disarticolato, privo della gamba sinistra e con i vistosi segni di fratture nella clavicola e nel braccio sinistro, il corpo senza vita scivolerebbe a terra se non fosse sorretto da Maria, dalla Maddalena e da Nicodemo.

E’ un corpo che testimonia drammaticamente la sofferenza per il supplizio infamante subito e, al contempo, l’angoscia del vecchio artista ottantenne, solo e duramente provato dai dolori e dalle delusioni della vita.

Nudo, emaciato, inerme, questo corpo contorto, spigoloso si offre alla vista e risveglia in chi lo contempla le potenti voci del niente perché è un corpo brutalmente offeso dalla violenza della crocifissione e dalla furia distruttrice di Michelangelo.

In lui non c’è armonia, né compostezza, né integrità, né vita.

E chi lo guarda sente affiorare in sé quelle stesse voci che nell’interiorità parlano di umiliazioni, di senso di inadeguatezza, di perdite dolorose, di domande irrisolte sulle cause della sofferenza e sul nostro essere in questo mondo.

Voci del niente che si risvegliano, che riaffiorano mentre si sta lì, immobili, ad ascoltare quello che quel Cristo sofferente dice di noi.

E non si vorrebbe andare via, e si continua a guardare…..

 

Il capo di Gesù, reclinato su un lato, forma un unico blocco marmoreo con la testa della madre come se la relazione tra loro non fosse stata recisa dalla morte.

Questa intima contiguità mi rimanda con il ricordo alla “Pietà Rondanini” che ebbi occasione di vedere al Castello Sforzesco di Milano e che è l’ultima opera di Michelangelo, scolpita dal 1552 al 1564 (anno della sua morte).

Nella “Pietà Rondanini” l’unione delle figure è portata a compimento: i due esili corpi sono fusi e quasi indistinguibili e la Madre, reclinata in avanti, abbraccia il Figlio morto come se volesse riaccoglierlo nel grembo in cui lo aveva concepito.

Mentre nella “Pietà Bandini” Michelangelo scolpisce, ricavandole da un unico blocco di marmo, quattro statue disposte su piani differenti, superando in tal modo una prova mai affrontata da uno scultore italiano, nell’ultima Pietà rimane solo lei, la Madre, insieme al Figlio. Soltanto lei è ancora capace di sorreggerlo, lei che aveva risposto all’Angelo dell’annunciazione con queste parole:

“ Ecco la serva del Signore; si faccia di me come hai detto tu” (Lc.1,38).

Non c’è espressione di una volontà personale, non c’è la pretesa di poter scegliere e di voler progettare un futuro secondo le proprie preferenze, Maria si ritrova nel “non per me” ed è questo assoluto abbandono che le darà la forza sovrumana di sostenere il corpo martoriato e ormai senza vita del Figlio.

L’unione intima e profonda di Madre e Figlio mi inducono a pensare al significato della maternità nella mia vita e alle tante madri dolenti che hanno pianto e che piangono la perdita dei propri figli, inoltre, ripensando alla frase di Maria, mi chiedo sul come possa accadere che ci si ritrovi nell’abbandono, nella semplice, difficile resa alle cose come sono.

 

Le altre due figure del grande gruppo scultoreo di Firenze sono la Maddalena e Nicodemo.

 

Sulla sinistra la Maddalena, probabilmente portata a termine dallo scultore fiorentino Tiberio Calcagni, è una presenza estranea all’insieme e non partecipa alla tensione drammatica che accomuna gli altri tre personaggi.

Ben diversa, invece, è l’importanza di Nicodemo che torreggia sul gruppo e il cui viso rappresenta un autoritratto dell’artista che, per certi aspetti, in lui si riconosceva e che aveva creato questa opera tanto complessa per il suo stesso sepolcro.

Come leggiamo nel Vangelo di Giovanni, Nicodemo era un membro del Sinedrio che, impressionato dal messaggio di Gesù, si era recato da lui di notte, per essere nascosto dalle tenebre e non essere visto dagli altri farisei, e aveva avuto un lungo colloquio con il Maestro (Gv. 3, 1-21) durante il quale Gesù gli aveva parlato della rinascita spirituale come di una nuova nascita nello Spirito, che viene compiuta dal cielo, dall’alto, e può riguardare anche un uomo anziano come lui. Ma perché Michelangelo sceglie di rappresentare se stesso nelle vesti di Nicodemo?

“Nicodemiti” erano chiamati, con disprezzo, alludendo alla loro azione anonima e clandestina, gli appartenenti al gruppo degli “Spirituali” con i quali l’artista sentiva di avere molte affinità.

Costoro sostenevano che la Grazia di Dio era donata all’uomo attraverso la fede e non attraverso le opere e mettevano in discussione il potere di mediazione, tra Dio e i fedeli, che aveva la Chiesa come istituzione. Ponevano in questione l’autorità assoluta del papa e regole e precetti di cui non trovavano traccia nei Vangeli.

Ricordiamo che gli anni in cui venne scolpita la “Pietà Bandini” (1547-1555 ca.) sono quegli stessi anni in cui papa Paolo III, convocando il Concilio di Trento (1545-1563), cercò di reagire alla diffusione della riforma luterana e riorganizzò (nel 1542) il Tribunale dell’Inquisizione, ponendolo sotto il controllo della Congregazione dei cardinali del Sant’Uffizio, presieduta dal papa.

Evidentemente nel clima della Controriforma il gruppo degli “Spirituali” era visto con sospetto e diffidenza dalle autorità ecclesiastiche.

Lo scontro tra gli “Spirituali” e la Chiesa si accentuò quando il cardinale Giampietro Carafa diventò papa nel 1555 con il nome di Paolo IV. Alcuni membri del gruppo dovettero fuggire all’estero, altri furono imprigionati e torturati, Michelangelo, protetto dalla sua grande fama, non fu perseguitato in modo così esplicito, tuttavia gli furono tolte commissioni importanti, che vennero affidate ad artisti meno noti, ma più ossequiosi nei confronti dei canoni artistici imposti dalla Controriforna, e fu privato di un generoso vitalizio che gli era stato concesso da Paolo III nel 1535.

Guardando la grande statua di Nicodemo, intuisco che cosa lega lui, ebreo colto, che aveva avvertito l’urgenza di andare nottetempo da quel Gesù, disprezzato dai suoi, per cercare le risposte che non aveva trovato nella Legge dei Padri e il grande artista rinascimentale che, sebbene ricco di riconoscimenti e di gloria, ormai anziano, viveva con tormento la sua profonda religiosità e aspirava a una nuova nascita nello Spirito, essendo deluso dalla testimonianza della Chiesa come istituzione. Entrambi erano animati dalla grande forza che spinge alla ricerca della verità e ne erano consapevoli.

Sui motivi per cui Michelangelo si accanì con tanta violenza contro quel corpo di Cristo così meravigliosamente scolpito si possono avanzare solo delle congetture.

Secondo Vasari, egli fu preso da una crisi di sconforto e di rabbia per aver trovato nel marmo una vena difettosa che avrebbe potuto compromettere l’esito finale della sua fatica; non è dello stesso parere Antonio Forcellino che sostiene che il ritrovamento di un difetto nel marmo non sarebbe stato un motivo sufficiente per giungere a una tale reazione e, a sostegno della sua tesi, porta come esempio “Lo schiavo ribelle” del Louvre, dove un’ evidente fessurazione non aveva fermato la mano dell’artista che aveva portato a compimento la statua.

Secondo Forcellino le cause dell’accanimento con cui Michelangelo si avventò contro la statua di Cristo sono da ricercare in una profonda crisi che attanagliava il vecchio artista e che era dovuta a un insieme di circostanze che segnarono gli ultimi anni della sua vita: alcune perdite molto dolorose (la morte dell’amica Vittoria Colonna, nel 1547 e quella più recente dell’amato collaboratore Urbino); il peggioramento della situazione economica dopo la sospensione del vitalizio; il clima di paura instaurato dalla Controriforma; l’attesa di un’ eventuale, ulteriore punizione; l’isolamento in cui era venuto a trovarsi e, data l’età, anche la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte che si stava avvicinando.

Di fronte a tanta angoscia quel Cristo appariva muto, incapace di portare sollievo alla cupa disperazione, la sua vista era insostenibile. Per tutti questi motivi, secondo Forcellino, l’artista si sarebbe scagliato con tanta violenza contro questa sua creazione a cui aveva dedicato tante energie e ore di duro lavoro.

Ormai irrimediabilmente compromessa l’opera fu regalata da Michelangelo a un suo servitore che, in seguito, la vendette per 200 scudi al banchiere romano Francesco Bandini da cui prese il nome. Lungo e travagliato è il percorso che il grande gruppo scultoreo dovette compiere prima di approdare al Museo dell’Opera del Duomo dove ora è posto su una grande pedana grigia che simula il sepolcro sul quale avrebbe dovuto essere collocato secondo le intenzioni dell’artista.

La “Pietà Bandini” si trova, isolata, in una grande sala a lei dedicata: la Tribuna di Michelangelo. Qui, in un giorno feriale, quando sono rari i turisti e la sala è immersa nel silenzio, è avvenuto il mio incontro con lei.

Giovanna