Breve recensione di Vivere di Akira Kurosawa
di Elfo Bertini
Ho sempre pensato che Akira Kurosawa fosse il regista dei bushi, i guerrieri di nobile estrazione (più comunemente noti in occidente con il termine samurai) del Giappone medioevale o, per converso, dei ronin, combattenti senza patria e senza padrone in cerca di avventure e soprattutto di denaro. Associavo una migliore descrizione del Giappone contemporaneo al cinema più pacato e meditativo di Ozu, con la sua inconfondibile cifra stilistica nella messa in scena e i suoi personaggi in bilico tra la tradizione dei costumi ereditata da un passato invadente e l’incombente sviluppo industriale con le sue ciminiere fumanti.
Mi sono evidentemente sempre sbagliato, perché Kurosawa non ha toccato vette altissime soltanto nel genere jidaigeki (film ambientati nel Giappone medioevale e, in particolare, nel periodo Edo) ma addirittura secondo alcuni critici, come ad esempio il Rondolino, “i risultati più notevoli e significativi li raggiunse in alcuni film che trattano argomenti contemporanei o che, ispirati a volte ad opere letterarie, rifuggono da quegli effetti drammatici e spettacolari che costituiscono l’aspetto più evidente del barocchismo del suo stile” [G. Rondolino; Storia del cinema – Utet Libreria].
Non condivido pienamente questa visione ma acquisisce sicuramente una sua veridicità quando si prende in considerazione quella grande opera cinematografica che è “Vivere”: film girato da Kurosawa nel 1952 e interpretato magistralmente, nel ruolo del burocrate Watanabe, da uno dei due attori feticci del regista giapponese, Takashi Shimura.
Di questo film io amo la sobrietà con la quale il dolore, la disperazione, la paura, emozioni e sentimenti che emergono quasi sempre quando si scopre di essere afflitti da un male incurabile, vengono messi in scena attraverso la vita di un funzionario vile, capo di un ufficio abitato da impiegati ancora più meschini del loro superiore.
La rigidità emotiva che caratterizza Watanabe (“la mummia”, così lo chiamano i colleghi), la palude spirituale nella quale egli (non)vive, nonché il suo burocratico immobilismo lavorativo che sconcerta i cittadini quando si rivolgono al suo ufficio alla ricerca di un disperato aiuto, vengono scossi dalla notizia della malattia che lo ha colpito, mettendolo bruscamente di fronte alla morte e all’inutilità della vita per come l’ha vissuta fino a quel momento.
Dalla scoperta del male in poi, in Watanabe, sarà il rinascere di un fiore nel deserto.
Comincerà così ad avvertire il desiderio di vivere tutto ciò che fino a quel momento non ha vissuto e il suo percorso iniziatico prenderà origine dall’incontro con un Virgilio personale e improbabile, che lo guiderà nella perdizione dell’inferno delle notti giapponesi: il divertimento, il gioco d’azzardo, la musica, il ballo, la folla, la sensualità, l’alcol, l’amicizia.
Watanabe cerca di addentare la vita suggendone la polpa, perché, banalmente, si rende conto di non avere più tempo.
Ma non gli basterà: lungo il percorso maturerà un grado di consapevolezza più profondo, anche grazie all’amore platonico, quasi paterno, provato per una giovane ragazza.
Capisce che la via per lasciare il segno, per redimersi, per dare pieno compimento al risveglio favorito dalla malattia è diversa; sviluppa così il desiderio di voler dar fondo alle ultime energie che gli rimangono per la realizzazione di un’opera pubblica che sarà d’aiuto per le famiglie e i bambini di un quartiere della città.
Il fulcro del film è proprio questo: la presa di coscienza profonda dell’impermanenza della vita, messa in luce con brutalità dal cancro, che concede a Watanabe la possibilità di rinascere per poter, questa volta sì, cominciare a vivere pienamente, con consapevolezza, percorrendo una delle poche vie che abbiano un senso nell’umana esistenza, il concedersi al prossimo.
Non c’è alcuna retorica nella descrizione che Kurosawa fa del risveglio di Watanabe: il regista è perfettamente consapevole che la presa di coscienza del protagonista è un fenomeno raro, quasi unico e, quindi, non porterà con sé il risveglio dei colleghi, né tantomeno dei superiori o dei politici, che continueranno a (non)vivere nella loro ipocrisia, avidità, in altre parole, nel deserto della loro vita.
L’unico fiore che rinascendo è sbocciato è quello di Watanabe.